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Consulenza filosofica

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Elogio dello scetticismo

12/06/2017

«L’impulso che porta al sorgere di una modernità diversa nasce indubbiamente dalla necessità di una trasformazione ecologica della vita. Ma l’impegno per realizzarla, così come quello necessario in generale per ogni cambiamento, non ha più bisogno del sogno di un mondo futuro, in cui tutti i problemi saranno risolti. Il concetto diversamente moderno di un cambiamento scettico trattiene le idee moderne del cambiamento e del miglioramento, le quali tuttavia non maturano più in relazione al proposito di realizzare, un giorno, una condizione “ideale”. Il cambiamento non è più fine a se stesso e non deve investire “tutto” nello stesso momento. Rinuncia alla fede nel fatto che le cose potrebbero essere migliori se solo potessero essere diverse e nuove rispetto a come sono.» [W. Schmid]

Il cambiamento come attesa e non come costruzione segna anche il panorama politico dei nostri tempi. Si nega la necessità di un impegno personale in quanto lo si ritiene inefficace, così come si ritiene inefficace ogni possibile autocontrollo, ogni attività volta al miglioramento di sé. È questa, forse, la forma peggiore di fascismo che abbiamo mai conosciuto.

Ipercritica

01/06/2017

L’ipercritica non è un effetto della modernità. Da sempre l’esercizio critico del pensiero, nutrendo l’ego, può ipertrofizzarsi. Nella storia della filosofia non mancano esempi di questo genere, il più clamoroso dei quali può essere quello di Diogene e della scuola Cinica. E neppure il gesto emulativo – approfittare dell’iniziativa di un altro per costruirci un’identità che non avevamo la forza o il coraggio di esprimere – è tipico dei nostri tempi. Quello che colpisce, oggi, è la rapidità con cui la comunicazione di massa amplifica fenomeni da sempre marginali.

Ma chi è l’ipercritico? 1) Innanzitutto è un solitario. L’esercizio esistenziale dell’ipercritica non favorisce certo rapporti costruttivi e duraturi. Un rapporto affettivo ipercritico genera disgusto e rancore nel partner. Nell’amicizia, l’ipercritica stanca e demolisce. Nel lavoro, impedisce ogni forma di creatività. 2) È un individuo mentalmente sordo, per il quale la comunicazione si riduce a una serie in input senza contenuto buoni solo a scatenare pavlovianamente il suo instancabile risentimento. 3) È un monolite pietrificato nella convinzione di sapere già. Nulla di quanto gli accade intorno può tornargli utile, nell’inderogabile determinazione volta esclusivamente  a smascherare, diffidare, opporre. 4) È un frustrato: raramente che detiene un autentico, grande o piccolo, buono o cattivo potere, manca di attenzione nel modo smisurato dell’ipercritico.

L’esercizio della critica è un esercizio della ragione, quello dell’ipercritica è l’esercizio di una volontà di potenza senza oggetto. Una volontà di potenza che non tende al dominio, al possesso, ma che brucia le sue energie come un falò sotto le raffiche del vento. La critica presuppone attenzione e discernimento, l’ipercritica esclude, annulla l’altro in un’insignificanza totale.

Critica, ipercritica e social shit

31/05/2017

Scrive Wilhelm Schmid: «Ancora più importante è una critica che non si esaurisce nell’estrinsecazione della rabbia e non scarica il lavoro per modificare l’esistenza sugli altri o sulla “società”, esprimendosi piuttosto negli atteggiamenti e nei comportamenti del singolo individuo, con lo scopo di migliorare innanzitutto se stessi e, in questo senso, per “coltivare” la critica. [Filosofia dell’arte di vivere, Fazi editore, pag. 63]

Il nichilismo aggressivo e compulsivo favorito dalla distanza che la rete garantisce trova in queste parole il suo antidoto più autentico. Ma è un antidoto fuori dalla portata del non-cittadino e del non-prossimo. L’essere connessi ha frantumato l’essere insieme. Non è la politica che ha dissolto l’appartenenza, ma il nostro non-appartenere neppure a noi stessi che ha dissolto la politica.

È mai esistito il futuro?

28/12/2014

Di fronte alla perdita di un futuro (o del futuro) di cui ci lamentiamo [vedi l’articolo di Giorgio Agamben], sento la necessità di soffermarmi a pensare.

Il filo d’Arianna potrebbe essere la storia del nostro pensiero speculativo, quello sorto 2700 anni fa, secolo più o secolo meno. E dunque: i Greci avevano un futuro? I presocratici, i grandi ateniesi del V secolo, gli accademici e gli eruditi ellenisti, pensavano al futuro? A giudicare dalla loro concezione del tempo, un eterno ritorno governato dalla razionalità, si direbbe proprio di no. Che futuro può esserci in un presente che si ripresenta? Qui però occorre fare una puntualizzazione. Il Futuro in quanto tale è una dimensione dello spirito (per gli agnostici, diciamo dell’intelligenza); non c’è futuro per le “cose”. In questa delimitazione, è d’obbligo un ulteriore chiarimento: il futuro, a chi dovrebbe appartenere (per il momento infatti non abbiamo ancora deciso se esso esiste)? All’umanità, ai singoli popoli, o a ciascuno preso individualmente? Decisamente, la questione si complica.

I Greci, tanto per dire, non avevano un’idea di umanità. Avevano quella di etnia, di gruppo identitario, per sua natura esclusivo e non accogliente. Il futuro del loro etnos, a sua volta frammentato in una costellazione di poleis, era nella continuità del passato, delle sue istituzioni e tradizioni. Un futuro diverso era immaginato solo come catastrofe, rappresentazione dell’ira degli dei. Non molto diverso per i Romani. Per entrambi, figli degli stessi dei, ciò che la speranza lasciava intravedere era il fluire di un tempo uguale a se stesso, interrotto solo dalla morte individuale. Dopo la quale non c’era più tempo; l’aldilà non era certamente una meta ambita. Per l’individuo, quindi, il futuro era la fine, il non-essere, un vuoto di senso. Per meglio dire, non c’era.

L’avvento del cristianesimo, con la sua nuova rappresentazione del tempo, dalla creazione all’apocalisse (la fine del tempi), portò il sol d’avvenire nell’orizzonte dell’umanità, non più divisa in etnie ma (almeno idealmente) raccolta in universale fratellanza. Ma non fu certamente un evento tanto rapido quanto, superficialmente, si pensa. Prima della Città di Dio di Agostino, il perno teologico era quello della Parousia, dell’avvento cioè del Regno di Dio in terra, i mille anni di beatitudine attesi dalle prime comunità. Un Futuro, indubbiamente, in quanto attesa, immaginazione, speranza. Ma del tutto circoscritto a una civiltà, a una religione. Altrove, vale a dire per la stragrande maggioranza dell’umanità, il futuro continuò ad essere il non-essere dell’essere-per-la-morte.

Futuro uguale speranza, dunque; o attesa della felicità. Una promessa per chi ha fede, una favola per chi non ce l’ha. Ancora una volta, così, restringiamo il campo di chi “pensa al futuro”. Poi sappiamo che c’è un modo diverso d’immaginare secondo la propria classe sociale di appartenenza. I poveri (generalmente parlando) non hanno mai avuto un futuro, se non affidandosi alla promessa della fede; un futuro, comunque, non di questo mondo. La classe medio alta – la moderna borghesia – ha invece sempre avuto un futuro: quello legato alla circolazione dei beni, un futuro economico. Lavorando, investendo, risparmiando, garantisco un futuro alla mia famiglia. Un futuro di accrescimento materiale (nella peggiore delle ipotesi, di mantenimento di un certo status quo). Notiamo una cosa però: in tutti questi costrutti mentali – paradiso, felicità, agiatezza, sicurezza – la parola “futuro” non è quella giusta; non è di questo che propriamente si parla quando diciamo “pensiamo al futuro”. A cosa pensiamo, quando “pensiamo al futuro”? Pensiamo alla nostra vita, quella di tutti i giorni, che è soltanto mia e che nessun altro può vivere al mio posto? O pensiamo a qualcosa di più grande: per esempio a un “mondo futuro”?

Le due alternative costituiscono modi diversi di investire la propria immaginazione e i propri sentimenti. Il mio futuro (o dei miei figli) è il domani, ancora incluso in un orizzonte famigliare, un mondo già ammobiliato perché le cose che posso sperare sono solo quelle che mi immagino, cioè che conosco. Posso sperare in un domani migliore, fatto cioè delle cose che oggi mi mancano; cose della cui esistenza sono pienamente consapevole. Questo futuro prossimo, questo domani, è ciò che oggi ci manca? È questo che abbiamo perduto con l’incancrenirsi del capitalismo finanziario? Un domani cioè uguale all’oggi, nel senso di un domani già noto e rassicurante, nel quale il mio progresso è garantito solo dalla sicurezza di un contesto solido e conservativo. Se il mio lavoro e i miei sacrifici hanno reso possibile un lavoro e una posizione ai miei figli, ciò è avvenuto perché nulla è cambiato, perché ciò che immaginavo era già qui, a portata di mano. Cosa ha a che fare tutto ciò con il futuro?

Il “mondo futuro”, invece, è un’invenzione della modernità, a grandi linee, dalle fantasie di Francis Bacon. Un mondo diverso, progredito, un mondo possibile. Questa immagine del futuro fa da pendant al concetto di progresso, un concetto moderno, strettamente circoscritto a un’élite intellettuale, attraverso la quale è poi percolato nel comune sentire delle masse (a grandi linee, dalle prime esposizioni universali e cioè dalla metà dell’ottocento). Filosoficamente, questa trasposizione meccanicistica ed economica della Città di Dio è strettamente connessa alla “morte di Dio” di nietzscheana memoria; essa non è propriamente “il domani” ma un mondo possibile, trasferito dalla dimensione trascendente a quella immanente. Immanente perché già inscritta nei cromosomi di questo mondo, diretta conseguenza delle conoscenze in nostro possesso. È un futuro da operetta (non per niente da esso è nato un grande genere letterario quale quello della Fantascienza), il futuro liberal-borghese delle umane sorti e progressive. Bene, a modo suo, anche questo futuro ci è stato tolto. Ma le cause non dipendono da un disegno intelligente e perverso; esse nascono direttamente dalla catastrofe oggettiva che il mondo della tecnica ci propone come scenario globale. Non abbiamo più, a ben guardare, ragioni valide per sperare nella tecnica. Forse siamo diventati più intelligenti e, forse per questo, nutriamo meno speranze.

Proviamo a tirare qualche conclusione senza tirarla troppo per le lunghe. Se il futuro che ci è stato tolto è quello rassicurante e borghese dello status quo, facciamocene una ragione: non è una novità, nella storia del mondo. Abbiamo tutti i motivi per dispiacercene ma ciò non costituisce, come gli Agamben fanno credere, un danno etico e civile. Caso mai il danno è già stato perpetrato, nel momento in cui ci siamo adagiati, negli anni passati, su un modello di vita così fatto. Se i demoni del capitalismo finanziario oggi ci tartassano, è perché tutti insieme abbiamo lastricato la via che li ha portati dove stanno, la via dell’agiatezza come diritto universale senza se e senza ma. Quel “diritto alla felicità” di cui scrissero i padri fondatori della democrazia americana senza troppo domandarsi cosa veramente sia la felicità. Se invece parliamo di un “mondo futuro” deserto e avvelenato, e cioè di quello che noi stessi giorno dopo giorno costruiamo per le prossime generazioni, ancora una volta non è al demonio che dobbiamo guardare, ma alle nostre stesse “buone intenzioni”. In ogni caso, di cosa parliamo quando parliamo di “futuro”, se non di qualcosa che non è mai esistito?

Cinema e Visioni del mondo

26/12/2014

Leggo Paolo Flores d’Arcais (P. Flores d’Arcais, Vito Mancuso: Il caso o la speranza. Dibattito senza diplomazia, Garzanti 2013, p. 15):

«[Mancuso] si limita perciò a “ribadire” il proprio “credo filosofico-teologico” rifiutando di “appiattirsi nella polemica”, cioè ignorando gli argomenti critici che ho rivolto al suo “credo”. Non esporrò qui un mio “credo” alternativo, non solo perché penso avesse ragione Max Weber, che invitava chi sentisse bisogno di visioni del mondo ad “andare al cinematografo”, ma perché penso……. ».

La visione del mondoDilthey, Jaspers – non è una cosa filosoficamente “seria”: è più che altro una disposizione a farsi un’idea della realtà secondo i presupposti del proprio contesto e della propria cultura. Viene prima, cioè, del pensiero con la P maiuscola. È una faccenda più collettiva che individuale, sicuramente fuori dal controllo di una mente critica. Detto questo, la supponenza snobistica di Weber (ma mi piacerebbe rintracciare il testo originale, cosa che Paolo F.d’A. non mi aiuta a fare), artatamente gettata in faccia ai lettori dal giornalista-filosofo, è una cosa insopportabile, come molte altre di questi oscuri anni.

Il “bisogno di visioni del mondo” è una questione che andrebbe presa con un tantino più di serietà (e non dico di rispetto, per non porgere l’altra guancia al secondo schiaffo). Al di là del dove e quando tale locuzione ha visto i suoi natali – già Kant l’ha usata, ma è ovvio: non conosceva ancora il cinematografo – essa ha un suo senso forte che va oltre le questioni filologiche. Dal pensiero mitico in poi, avere una visione del mondo fa parte della costituzione del pensiero umano. Del pensiero come potenza analitica e sintetica, e quindi ordinatrice del cosmo, generatrice di matrici culturali e di paradigmi interpretativi e scientifici. Ogni evento, ogni esperienza hanno senso solo in una cornice interpretativa che permetta di riconoscerli come significanti, cornice che è a priori rispetto ai giudizi della ragione. Tale cornice è data come sistema organizzato ereditato dal contesto e dall’educazione; possiamo chiamarla Pippo, se visione del mondo non piace, ma un secolo di psicologia e filosofia ci hanno ormai convinti della verità di questa affermazione.

A detta dunque di Weber e del nostro, il Filosofo – perché questo è il sottinteso: chi sa pensare vs chi non sa pensare – non ha bisogno di v.d.m. Come faccia dunque il Filosofo a “organizzare” il proprio pensiero ce lo mostra proprio il d’Arcais in questo libro-conversazione col malcapitato Mancuso. Dice infatti Mancuso (in sintesi): «io ti propongo il mio credo, tu cerchi solo di distruggerlo senza metterti sullo stesso piano, senza espormi il tuo». Con la risposta che abbiamo letto all’inizio. Il gioco gladiatorio messo in scena nel libro è dunque così fatto: un guerriero pesantemente armato di una visione del mondo, invece di essere affrontato da un avversario altrettanto equipaggiato, è punzecchiato da tutte le parti da una specie di sabotatore inafferrabile. Quali sono le armi del sabotaggio? Due affermazioni che ritornano ossessivamente, come colpi di pugnale inferti nella stesa piaga: 1) alla filosofia è lecito tutto, meno che «fare affermazioni in conflitto con gli accertamenti scientifici di cui disponiamo»; 2) c’è un solo modo corretto di argomentare, ed è applicare rigorosamente il cosiddetto “rasoio di Ockam”. Non entriamo nel merito di questi due “assiomi”, in realtà estremamente potenti; facciamo solo attenzione a un fatto: che cosa sono 1) e 2), messi insieme e applicati a uno stile di pensiero, se non una ben precisa visione del mondo? Una v.d.m. che, come altre, non dà ma toglie. Va per esclusione – stabilisce cosa non si può fare – invece che per addizione – aggiungere qualcosa alla conversazione. Dunque il “vero filosofare” ha lo scopo di cogliere le contraddizioni, le fallacie argomentative e le aporie del discorso, e non altro. In pieno accordo col neoempirismo logico. Ma il neoempirismo logico è una concezione scientifica del mondo (titolo del manifesto filosofico di Hahn, Neurath e Carnap), cioè esattamente una Weltanschauung. Ma la paura di quelli come Paolo è ben chiara: nel momento stesso in cui ammetto che il mio sistema di pensiero è una concezione del mondo, sic et simpliciter mi nego la possibilità di imporla agli altri; non è più indiscutibile. Perché il pensiero scientifico, come il pensiero magico, è fondato su un principio assoluto d’autorità. Attenzione: non il modus operandi degli scienziati, ma la fede di chi scienziato non è e si appella alla scienza in mancanza d’altro.

Morale. E se il vero filosofare fosse applicare sempre e comunque un’inflessibile onestà intellettuale?

O tempora o mores… verrebbe da dire.

04/03/2012

La volgarità è un segno dei nostri tempi? Dipende da come la si intende. La volgarità delle immagini, per esempio, è un fenomeno culturale già abbastanza datato: almeno da quando è stata “inventata” la donna oggetto, ovvero il corpo femminile come esca ben infilzata sull’amo dei consumi. Sotto questo riguardo, non manca una vasta letteratura volta a denunciare/spiegare il fenomeno; tuttavia è indubitabile il fatto che esso stia rifiorendo con, spiace dirlo, la complicità del sesso femminile. Ma non è di questo che parleremo.

C’è un’altra forma di volgarità che oggi dilaga nel pubblico, negli spazi cioè della socialità, che possiamo far discendere direttamente dai “favolosi anni Ottanta”, dagli “ultimi giorni di Pompei” della cosiddetta “prima repubblica”. È la volgarità degli atteggiamenti, definibile come l’esibizione ostentata di una totale mancanza di freni di fronte al comune senso del decoro.

Questa forma di volgarità ha una sua particolarissima connotazione: attraversa tutti gli strati sociali senza distinzione di ceto, contrariamente al senso che il concetto di V. aveva in passato, quando l’origine stessa del termine (da Vulgus, popolo, inteso come feccia, suburra) ne indicava i contorni squisitamente culturali. Essere volgari, molti anni fa, equivaleva pressoché automaticamente all’essere ignoranti, rozzi e privi di stile; a fronte di uno stile di vita improntato all’eleganza e soprattutto all’autocontrollo degli atteggiamenti, sempre misurati sulla base di un più o meno comune “senso del decoro” e del pudore. Il ceto medio-alto tendeva insomma, con tutte le dovute eccezioni, ad espellere da sé i comportamenti inaccettabili sotto il profilo dello stile e della convenienza (ovviamente non è in discussione, in questa sede, la maggiore o minore fondatezza etica di quelle valutazioni), mentre attualmente si assiste al processo contrario, come se il potere economico volesse sempre più strettamente identificarsi col potere di fare tutto ciò che si vuole.

Quello che qui ci interessa non è fare della fenomenologia della volgarità, ma riflettere sulle ragioni per le quali qualcuno sente questo atteggiamento come una lesione alla sua sensibilità e dignità. C’è chi soffre per la diffusa volgarità: qual è l’origine di questa sofferenza? È come se la distanza che un tempo si poteva tenere, magari voltando la testa dall’altra parte, sia stata abbattuta così che ovunque spostiamo lo sguardo, siamo sempre senza difesa.

Quello volgare  non è, naturalmente, un comportamento neutro e omogeneo, uguale per tutti in ogni occasione: possiamo descrivere la nostra sensibilità (nei suoi confronti) come un campo di percezioni che man mano che si allarga perde di forza. Ai margini estremi di questo campo collochiamo gli atteggiamenti più diffusi e, in qualche modo, inoffensivi – quelli che sostanzialmente non ci toccano più di tanto; o addirittura quelli che “ormai” consideriamo come parte della normalità e che ogni tanto condividiamo, magari nostro malgrado. Man mano che però ci avviciniamo al centro di questo campo, emergono i comportamenti più lesivi, i meno tollerabili (sempre secondo un punto di vista individuale), fino a quelli il cui manifestarsi ci ferisce profondamente. Ma cos’è che ci ferisce?

Per comprenderlo dobbiamo verificare un dato: lo stesso comportamento offensivo in due persone, una appartenente a un nostro ambito di relazioni e l’altra lontana da noi, ha lo stesso effetto? Innanzi tutto e per lo più no: è quasi sempre la relazione quella che veicola il disturbo, di qualunque genere essa sia, anche la più effimera come il viaggiare su uno stesso treno. Da chi condivide con noi un in-essere-nel mondo (una particolare situazione) ci aspettiamo, in modo del tutto spontaneo, di essere riconosciuti, di essere rispettati nella nostra dignità e umanità. Questo vale anche nelle situazioni più estreme: proviamo meno turbamento nel vedere un uomo divorato da un branco di lupi (è una tragedia che non ha, letteralmente, senso), che non assistere a una scena di tortura e vilipendio su un prigioniero di guerra. In quest’ultimo caso, la relazione umana tra vittima e carnefici mette in risalto la violenta rottura del patto di uguaglianza tra esseri umani, proprio il ponte di senso che li unisce aumenta la violenza del gesto offensivo della dignità (di tutti e due, oserei dire). Per questa stessa ragione, la volgarità è tanto più offensiva quanto più vicina a noi è la persona che la esibisce, e non necessariamente nei nostri confronti.

Dunque la relazione spiega l’origine della lesione, ma non mostra ancora fino in fondo che cos’è che ci ferisce della volgarità. Che cosa vediamo di spaesante nel gesto volgare? Perché, a detta di molti, la sensazione che si prova in certe situazioni è di spaesamento, il non sentirsi più “a casa propria”: unheimlich, direbbero Freud e Heidegger. Come l’angoscia, la volgarità è spaesante. Qual è il “paese” da cui ci sentiamo, improvvisamente, espulsi?

Psicologia o filosofia?

20/02/2012

Cerchiamo di capire “una volta per tutte” che cosa distingue l’atteggiamento psicologico da quello filosofico. Atteggiarsi “psicologicamente” verso una problematica implica l’adesione a un paradigma interpretativo, fare riferimento a una teoria scientifica del comportamento, in base alla quale classifico l’atteggiamento che assumo ad oggetto della mia osservazione. In questo caso, sono obbligato a stare dentro a un modello, e soprattutto a operare per giungere a un certo risultato: eliminare ciò che, in quella teoria, è classificato come disturbo.

Atteggiarsi “filosoficamente” implica invece l’assunzione di una coscienza critica (diciamo: una meta-coscienza, una coscienza “superiore”), la rinuncia ad operare pragmaticamente entro un modello e la decisione di sottoporre quello ed altri modelli analoghi ad un confronto che ne riveli il senso, l’origine e la finalità. La coscienza filosofica rinuncia all’azione a favore della critica, del pensiero, di una libera ricerca della verità che prescinda da ogni idea di verità precostituita. Ancora una volta: agire filosoficamente è “agire in libertà”.

Condurre una vita filosofica implica un cammino di formazione culturale? Non diciamo “è necessario avere una laurea”, ma anche solo predisporsi programmaticamente a un percorso di formazione? Esistono persone, ne conosciamo tutti, che spontaneamente ci offrono modelli di comportamento profondamente filosofici, cioè liberi e consapevoli, con una semplicità e spontaneità che non hanno niente a che vedere la “sapienza” e la “cultura”. È possibile che “vivere filosoficamente” sia una dote naturale, o, per meglio dire, sia un traguardo raggiunto anche inconsapevolmente, e tuttavia frutto di una costante meditazione sul senso della vita. Occorre liberare la parola “filosofia” dalle sue connotazioni occidentali, che hanno finito per relegarla nel recinto delle professioni e delle caste, di un sapere elitario utile a dividere più che a unire, a ritagliare privilegi più che a liberare il pensiero. L’essere umano è naturalmente filosofo nella misura in cui è dotato di pensiero e di coscienza; il loro uso è filosofico nella misura in cui è libero ed è critico.

Al di là dunque delle pastoie culturali in cui si muove “la filosofia”, vediamo come si articola una vita filosofica. Noi siamo innanzi tutto e per lo più gettati nel mondo, vale a dire in un contesto modellizzante, in un’educazione che ci è data senza che la possiamo scegliere. Il primo passo è quello di prendere coscienza di questo “nostro” modello, guardandolo dall’alto di una “coscienza assoluta”, cioè di un Io che “possiede” e non “è posseduto” da quel modello. La domanda è: che cosa “me ne faccio” di questa consapevolezza? Di quale utilità mi è? Nel momento in cui la “mia” visione del mondo è spianata di fronte a me con oggettività, essa diviene “una” fra le altre, qualcosa che posso confrontare consapevolmente e criticamente. Il processo non deve necessariamente condurre a una revisione del proprio modello: sono tuttavia cose assai diverse sapere “perché” agiamo in un certo modo o non saperlo. A volte ciò può già essere sufficiente a darci serenità. La mia risposta nei confronti di un modello alternativo può essere accettarlo per arricchire di nuove sfaccettature la mia esistenza, ma anche semplicemente “prenderne atto” per riconoscere in chi me lo offre un’”altro modo d’essere”; con questo riconoscimento metto in opera la tolleranza e il rispetto, e soprattutto evito di riferire all’altro le stesse intenzioni che mi muovono nel momento in cui ricevo da lui qualcosa di “offensivo”: non sempre ciò che mi ferisce dipende infatti da una cattiva volontà dell’altro: più spesso è legato a intenzioni che nella mia visione del mondo hanno un altro senso. Per essere chiari: la filosofia non è una mistica, un abbandono disarmato a entità superiori: essa è uso della ragione, dominio della propria coscienza.

La relazione amorosa

06/02/2012

Se ci viene chiesto di pensare spontaneamente a “un sentimento”, noi pensiamo innanzi tutto al sentimento amoroso, alla relazione sentimentale. Oggi allora ci chiederemo: è possibile la libertà in una relazione sentimentale? Filosoficamente parlando: è possibile essere autonomi di fronte all’assalto della passione amorosa? L’autonomia della scelta si colloca nello spazio tra l’assalto, o la passione, e se stessi, nel momento cioè in cui io distinguo la passione da ciò che sono, intendendo con ciò la mia integrità di persona ragionevole. Identificarsi nelle proprie passioni non è allora il contrario di una vita filosofica?

La passione appartiene alla categoria esistenziale degli “stati d’animo”. Come ci ha insegnato Heidegger, noi siamo gettati in uno stato d’animo, così come in una passione; essi non dipendono da noi, da una nostra scelta, dalla nostra volontà. La vita filosofica comincia dopo, nel momento della libera decisione verso questo Esser-ci, essere dentro il puro sentire. In tal senso, se non solo in questo, la filosofia è libertà. Ciò che oggi ci interessa, tuttavia, è anche capire se ha senso scegliere di “essere per la passione”, accanto alla possibilità alternativa di “dominarla”. Forse ciò è possibile nel momento in cui riconosco un modo di essere autentico nella passione stessa, se vedo in essa un modo di essere produttivo, creatore di senso.

Il concetto di “libertà” applicato alla relazione amorosa ha però due significati: essere liberi nei confronti dell’altro, ed essere liberi verso se stessi. Senza escludere una terza possibilità: essere liberi di essere se stessi. Si parla così di “relazione aperta” (Sartre e De Beauvoir, tanto per fare un esempio); di “relazione responsabile” e di “relazione alla pari”.

Non c’è dubbio però che la relazione amorosa autentica vuole l’esclusività: essa è duale, l’amore non è una torta che si può fare a fette. C’è forse da dubitare che il sentimento amoroso possa esserci nella libertà, se esso ci espone al possesso dell’altro, e ad essere posseduti interiormente dall’altro? Noi stessi desideriamo di essere tutto per l’altro.

Se l’amore “ci prende”, ne consegue che in esso possiamo cadere, entrando così nella condizione di non poter più scegliere come agire nei suoi confronti. La passione amorosa ci agisce, fa di ciascuno un “uno qualunque”, un “innamorato”. Per evitare questo occorre un’attrezzatura esistenziale che anticipi l’evento, che lo includa in una sfera di possibilità già previste. O pre-viste, nel senso della pre-veggenza consapevole. Tutto questo a partire da un dato di fatto: ciò verso cui noi ci attrezziamo non è l’altro, il partner, ma è l’evento, in questo caso la passione. Non abbiamo cioè a che fare con “un nemico”, ma con una condizione, con una possibile caduta nella non-libertà. Attrezzarsi filosoficamente è un esercizio di auto-comprensione prima di essere la comprensione di qualcosa. Ma “attrezzarsi”, in una condizione di tipo esistenziale come la relazione amorosa, può essere inteso in senso psicologico come il “fare esperienza”, o come si suol dire “imparare dalla vita”. Questo naturalmente è solo il primo passo, non sufficiente di per sé a trovare autenticamente se stessi. “Evitare di ripetere gli stessi errori” è un modo riduzionistico di intendere le proprie possibilità. Esso ci costringe in un habitus, o ci mette in una condizione difensiva, che non ha nulla a che vedere con la libertà.

La domanda che ci aspetta allora potrebbe essere: che cosa distingue un’”attrezzatura psicologica” da una “filosofica”?

Ragione o sentimento?

31/01/2012

Ci sono parole che danno emozioni. Rispetto a queste parole e alle loro emozioni, possiamo reagire “psicologicamente” (sentire o patire “dentro di noi” un certo stato d’animo, o “non sentire” niente), oppure filosoficamente, nel senso di metterci nella condizione di scegliere in libertà e consapevolezza  come porci di fronte ad esse. Per esempio la parola “morte”. Il pensare filosoficamente alla morte non è un intellettualistico esercizio di razionalità metafisica – non è “cercarne la definizione” -, ma è la possibilità di stare nella sua prossimità in modo libero. Libero di scegliere tra sentimento e ragione, ovvero tra emotività e razionalità. L’agire consapevole del vivere filosoficamente è esercizio di libertà nei confronti di ciò che, innanzi tutto e per lo più, avviene malgrado noi stessi, o, ancora meglio, avviene in noi stessi.

Ragione e sentimento hanno orizzonti diversi; quello della ragione è l’utilizzabilità: il pensiero razionale deve rispondere a un criterio di utilità, prima di tutto il resto. Esso è, heideggerianamente, estatico, è cioè proiettato fuori di noi. Sentimento è invece ciò che provo senza poterlo conoscere. L’orizzonte del sentimento è dunque autoreferenziale, perché in prima istanza il sentimento autentico è puro vissuto incomunicabile. La parola è il tentativo di farlo uscire da noi, di renderlo comune. Posso “far sapere” il mio sentimento lungo la via maestra del linguaggio, ma posso farlo “conoscere”? Si dice, di solito: “so cosa stai provando”, non “conosco quello che provi”, mentre in una poesia o in un brano musicale possiamo “sentire” cosa li muove. E ancora: il sentimento si esprime e non si spiega, e quindi si comprende e non si apprende. Ma malgrado tutte queste difficoltà, non esiste alcun sentimento che sia incomunicabile, se non nella misura in cui esso rimanga bloccato dentro di me per paura o per vergogna. Ciò che manca nella comunicazione di un sentimento non è la sua comprensibilità, ma il ponte stesso che ci apre agli altri; manca il mezzo, non il contenuto.

Sentimento e ragione sono sfere opposte? Noi siamo liberi nei confronti della ragione E del sentimento? Possiamo cioè deciderci auto-nomamente per l’una o per l’altro? Esseri liberi verso il sentimento non significa “non provare” sentimento. Un conto è la paura, nella quale la mia libertà non c’è più, perché la paura riempie di sé tutta la sfera del vissuto.  E soprattutto, la Paura non è mai ciò che sceglieremmo: possiamo scegliere di portare il peso del dolore, o delle lacrime, così come di innalzarci razionalmente al di sopra di essi, nell’imperturbabilità. Ma della paura sappiamo che è sterile, priva di senso, disumanizzante. Noi siamo schiavi della paura.

Scegliere il sentimento non è essere sentimentali: nella scelta si esprime la consapevolezza del senso che esso ha nell’economia del mio vissuto, del valore aggiunto che arreca alla mia esperienza, e anche, perché no, del bene che faccio a me e agli altri. Tra ciò che “mi assale” e ciò che “provo” c’è differenza, e c’è un salto: c’è la sfera della volontà e dell’esperienza, che possono attribuire al puro sentire un contenuto dotato di valore, possono dare al sentimento la mia impronta personale, che è ciò che precede la creazione di un pensiero.